DENISE ORRÚ. LA POETICA POP-NEOBAROCCA ESPRESSIONE DELLA DISTOPIA CONSUMISTICA
La strada di Denise Orrú non arriva dalla ribellione al sistema, ma dalla volontà di riscoprire e portare alla luce quello che non riusciamo a vedere, perché costantemente presente nella nostra vita. La sua è una manipolazione di fotocopie di immagini di oggetti e di soggetti reali, unite a disegni a matita da lei effettuati: ne risultano creature costituite dalla scomposizione di unità, rimontate in una grammatica del vedere che dà nuova vita a immagini preesistenti. La ricostruzione della realtà avviene attraverso una visione del mondo, come condizione di disordine che ci sommerge, e un’espressività del colore (largo uso di dorati e argentati spesso su lamina di alluminio applicati con la colla) in senso barocco. La corporeità è allegoricamente rappresentata da simboli, prodotti, stili di vita tipici della contemporaneità. Il pregio delle opere della Orrú sta proprio in questa estetica neobarocca, capace di istituire una comunicazione con il fruitore che, trovando un linguaggio tipico del suo tempo, riesce a decodificare il senso di quelle immagini: frammenti del proprio Io, della propria vita, una lacerazione, un modo di sentirsi. In questo mondo di eccessi, diviene arduo trovare la propria identità. Le prime opere della Orrú sono la ricerca di un senso che – forse – il proprio nome può dare (“Denise” n. I,, 1996, bassorilievo in mediodensin, vernice poliuretanica rossa). Nell’opera “Cuore arido” (2010, vetro, sabbia rossa, metallo, vernice, legno; in teca), le forme aguzze e la spregiudicatezza del rosso alludono a una condizione di disagio, di attesa di svolta. La statua del 2011 è una donna che si osserva, sempre intenta a riconoscersi: è bianca, ma dentro è ancora buio, la sensazione di blank è ancora intensa: “sembra il prodotto di uno scollamento antisociale, di una mancanza di integrazione col destino comune” (Achille Bonito Oliva, Antipatia. L’arte contemporanea). La nostra è una società in cui prevale una visione pornografica degli esseri, che schiaccia ciascuno a una realtà di carne, di oggetto. I media ne sono artefici e veicolatori. Eserciti di consumatori si apprestano ad adeguarsi all’estetica massificata e oppressiva che li renderà schiavi di un progetto di colonizzazione del gusto. Denise Orrú si interpola tra l’invio del messaggio da parte del sistema e i destinatari, facendo di sé stessa un medium che si espone al giudizio del mondo come un essere reale e fisico, disposto a offrire la propria esperienza, la propria deriva come alternativa al diktat. I suoi collages sono la sua e la nostra catarsi: esaltano figure atte a dimostrare la superficialità di una cultura ossessiva, fatta di prodotti e in cui, lo stesso individuo, ha solo due alternative: essere un consumatore vorace o un oggetto consumato. L’arte diviene parodia della felicità continuamente evocata come bene da acquistare, da consumare. Dice Marshall McLuhan: “Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.” (Gli strumenti del comunicare). L’opera della Orrú, attraverso questo afflato neobarocco per la complessità, diventa una risposta molto potente nel segno della destabilizzazione.
Lo scenario dei collages indica una rinascita in cui, i vari segnali, si fanno portatori del pericoloso caos cui è esposto l’individuo contemporaneo. La ricerca formale si nutre dell’aggregazione dei dati della cultura popolare utilizzando un gusto neobarocco, intriso di istanze di significato e di contenuto. La Orrú trova il suo orientamento, elabora la sua Weltanschauung, formula domande, scompagina il convenzionale attraverso una poetica ormai matura. I collages, dal 2012 in poi, inscenano la consapevolezza dell’illusorietà dei messaggi del potere culturale e mediatico. L’operazione, all’interno di queste opere, è quella – già sperimentata dai ready-made – di prelevare un oggetto comune dal suo ambiente per proporlo in un ambiente alienante, dove la sua presenza diventa la provocazione di un’artista, la storia di una donna, la memoria di ognuno: lo Zeitgeist. L’appropriazione di ritagli come elementi della composizione, tuttavia, non assume il valore di divertimento, ma è solo una combinazione di materiali e tecniche cui si aggiunge l’intervento dell’artista: il tutto teso a trasmetterci la condizione distopica del presente in una forma enigmatica. Il linguaggio è, dunque, quello della Pop Art contaminato con la ridondanza estetica tipica del Neobarocco, quel gusto preconizzato dal semiologo Omar Calabrese e che, oggi, coincide con un sentimento della sorpresa, del virtuosismo e dell’originalità. Un gusto, diffusosi grazie alla televisione, e teso alla spettacolarità. “Caratteri della sensibilità neobarocca erano per Calabrese l’eccentricità, l’eccesso, ovviamente l’asimmetria, l’instabilità, la tendenza continua alla metamorfosi, la celebrazione del disordine e del caso, e dunque del labirinto come impossibilità di un percorso unilineare e della tendenza a una meta. E pertanto il piacere dello smarrimento e dell’enigma.” (Umberto Eco, Il Neobarocco. Profezie di tempi inquieti ne Il lavoro culturale). La saturazione delle superfici, attraverso il ripetersi delle immagini e l’iperbole cromatica, rievoca la pubblicità di inizio Novecento, le grafiche degli artisti prestati al mondo dell’advertising, dei pubblicitari. In questi collages, ispirati al consumismo e allo stile di vita contemporaneo, ritroviamo tutto lo spirito pop condito della ricerca decorativa dei padri fondatori del cartellonismo pubblicitario (Cappiello, Dudovich, Metlicovitz e altri) cui si aggiunge un elemento ironico e umoristico che percorre tutta la produzione della Orrú. “L’umorismo non è rassegnato ma ribelle, rappresenta il trionfo non solo dell’Io, ma anche del principio del piacere, che qui sa affermarsi contro le avversità delle circostanze reali” (Sigmund Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio): da un lato, lo stile dell’artista esibisce la vulnerabilità della donna, dell’individuo; dall’altro, smaschera la tendenza a fingere il superamento della impermeabilità fra le classi attraverso la possibilità di consumare. Denise Orrú mette mano al suo spettacolo di lingue, gambe, donne da copertina, hamburger, barattoli di Nutella, mani che penetrano bocche, mani che penetrano facce, tavolette di water, gelatine guarnite: è un accanimento graficamente ineccepibile e, che, attraverso la lusinga visiva, stigmatizza oggetti e miti tipici della società contemporanea (“Pensiero debole”, opera segnalata tra le finaliste del Premio Arte 2013). Le “Ballerine” del 2012 evocano il “Can-can” di George Seurat o il manifesto per Loïe Fuller al locale Folies Bergère del padre del manifesto moderno, Jules Cherét. Ballerine sagomate da una tripla bottiglia di Coca-cola si muovono su agili gambe e piedi sulle punte che indossano le tipiche scarpette. Tra tutte, solitaria, una figura alle altre affine, ma non completamente identica, fatica a confondersi. Si avverte la spettacolarizzazione della differenza, la sovraesposizione del corpo come disponibilità a divenire clown consapevole e portatore di verità. L’artista opera il distacco dal corpo sociale, alienato e alienante. Ma attenzione: quelle ballerine solitarie, quelle doppie donne prive di testa, protagoniste delle ultime opere, testimoni degli squilibri dell’esistenza, del sentimento del proprio tempo, rappresentano la possibilità di sottrarsi all’esca del consumo che finisce per ammalare, la possibilità di dissentire da un ordine che vorrebbe ridurre il mondo intero all’assenza di un’anima a favore del profitto. Questi collages ci avvertono di quel malessere sociale ormai penetrato e, di fronte al quale, l’umanità sembra non aver assunto le precauzioni necessarie. Quello che sembra un divertimento, diventa qualcosa di molto serio, tanto che, di fronte all’afasia di forme d’arte più tradizionali, si è indotti a pensare: “Abbiamo dovuto essere pazzi o vigliacchi per abbandonare il collage. Avevamo dei mezzi magnifici e sono ritornato alla pittura a olio. Che follia!” (Da Picasso, Propos sur l’art).
di Claudia Placanica
(Author, Educator, Ricercatrice di Socio-Culture contemporanee)
Espressioni d’animo
“Troppo spesso la vita causa dolore, ma l’artista non si ferma, lo assorbe, lo fa proprio, scruta nelle profondità del suo essere per sviscerarlo e, infine, lo lascia emergere attraverso le sue opere. Sebbene l’arte di Denise Orrù possa apparire ironica, per certi aspetti, quel che nasconde è questo travaglio interiore, la sofferenza della donna nell’epoca della “perfezione fisica”. L’artista cela la sua critica e racconta dei disturbi alimentari che, come una piaga, caratterizzano il nostro secolo. La bulimia, tema centrale nei lavori dell’artista, viene raccontata e svelata in chiave ironica, ma con un grido in sottofondo. C’è la voglia di andare oltre, di superare le difficoltà per ritrovare un corretto equilibro. Il dramma raccontato dall’artista traspare in tutta la sua cruenta realtà, poiché vissuto in prima persona. Intervengono poi colore e forma a sdrammatizzare, rendono il linguaggio piacevole, ma non per questo distraggono dal tema. Forma e colore ricordano allo spettatore che esiste sempre una via d’uscita. Il vuoto emotivo che porta la bulimica a cercare di colmarlo attraverso il cibo diventa, nelle opere dell’artista, un pieno, un orror vacui, impossibile da riempire ulteriormente”.
di Giovanni Avolio

